Mi è capitato spesso di ascoltare storie di persone che dopo aver raggiunto l'ambito traguardo della pensione si ammalassero o addirittura morissero. Mi sono chiesta spesso quale motivo potesse portare una persona a lasciarsi andare in maniera tale che il suo corpo desse dei segnali così forti, anche perchè spesso si trattava di persone che a mala pena avevano raggiunto i sessantacinque anni di età.
Indagando maggiormente nelle vite di queste persone, ho scoperto che per ognuna di loro quel particolare “destino” era corredato di antefatti, ovvero di circostanze che in qualche modo potevano giustificare l'esordio di sintomatologie che per molti erano già presenti da anni.
Così ho in qualche modo osservato delle dinamiche ricorrenti che mi hanno portato ad osservare che alcune persone, lasciando il loro ruolo sociale, quell'Io “lavorativo” che per anni ha svolto le medesime mansioni, ha frequentato le stesse persone creando molto spesso anche dei legami affettivi importanti, si ritrovavano improvvisamente a sentirsi “vuote”, o “inutili” e a pensare quindi che la loro vita non avesse più alcun senso per nessuno, o che ciò che li attendeva non fosse sufficiente a riempire tale “vuoto” (i nipoti ad esempio o compagno/a). Altre invece avevano convissuto per anni con alcune sintomatologie alle quali non hanno dato ascolto, attribuendole allo stress, compensate con visite mediche conclusesi con la somministrazione di qualche farmaco palliativo, e che quindi nel rilascio di adrenalina prima impegnata nell'affrontare gli impegni quotidiani, vi sia stata una risposta drammatica del sistema parasimpatico, non più in grado di compensare per il forte accumulo dello stress acquisito negli anni.
Non a tutti accade così, direte voi. Certamente. E per fortuna, dico io!
Ma al di là degli esiti “clinicamente interessanti” che possono verificarsi per le persone che sono giunte in un momento della loro vita in cui possono godere degli investimenti fatti nella loro esistenza, libere da incombenze, orari, cartellini da timbrare, regole istituzionali da rispettare, credo che un po' a tutti in quella stessa fase della vita, sia capitato di pensare “E ora? Cosa faccio?” Ricordo un bel film che aveva come interprete Robert De Niro e per il quale la vita da pensionato ebbe risvolti drammatici! Molti mi hanno raccontato di essersi ritrovati spesso a svegliarsi alla stessa ora nella quale si svegliavano per andare al lavoro, e di sentirsi smarriti, come se tutto quel tempo in realtà presentasse una minaccia e non una risorsa.
E senza che se ne accorgessero hanno cominciato a non sentirsi più bene, ad andare spesso dal medico, a peregrinare tra vari specialisti, non tanto per scoprire quale fosse il motivo del loro malessere, ma piuttosto per la paura di averne uno grave che potesse impedire loro di...
Ecco appunto, impedire cosa? In che modo il tempo può essere a quel punto impiegato?
Dovrebbero forse fare un libretto di istruzione per le persone che vanno in pensione o quelle non più impegnate in certi ruoli, quelle che diventano improvvisamente libere da aspettative esterne. Sì, perchè in un certo qualsenso è come se si disimparasse a chiedersi quali sono le proprie passioni, che cosa ci può far piacere, che esiste un piacere al di là del dovere e che lo stesso piacere diventa una condizione essenziale perchè un essere umano possa rimanere in un buono stato psico-fisico.
Tutto questo può portarci a pensare quanto sia importante che nel corso della propria vita ci si dedichi ad una passione, ad un interesse che possa diventare una sorta di “compagno per la vita”, un'attività che contenga in sé un'energia capace di farci sentire vivi, desiderosi di viverla, nella quale possiamo riflettere la nostra essenza più profonda, quella parte di noi che non è condizionata dagli eventi esterni, che non ne viene determinata, qualsiasi cosa accada.
E così sono giunta a coniare il termine “momento sabbatico”, con la precisa intenzione di portare una consapevolezza maggiore su come trascorriamo il nostro tempo, quando non “dobbiamo” espletare delle incombenze, di qualsiasi natura esse siano (lavorative, familiari, affettive/amicali).
Sovente credo anche voi vi siate trovati con amici a sognare di prendere un “anno sabbatico”, ovvero di poter prendere un tempo da vivere al di fuori degli impegni, un tempo di ricerca, di svago. Ma subito dopo la frase è più o meno la stessa “Eh, ma quando potremo prenderci un anno... il lavoro, la famiglia...magari! Chissà quando andremo in pensione!”
Vi ritrovate vero?
Peccato che quando poi si arriva alla pensione non si sia più così energici da poter prendere un anno per andare all'avventura nel mondo, oppure ci si ritrova con nipoti da accudire, o anziani genitori di cui prendersi cura. Ed ovviamente tutto questo viene fatto con amore. Ma che ne è di quel desiderio? Che ne è di quel sogno nel quale probabilmente c'era un aspetto importante, quello del ritrovarsi in altri luoghi, con altre persone, in altre dimensioni, a scoprire altre cose degli altri e di noi stessi?
E allora, perchè non pensare invece di creare nella propria quotidianità un momento sabbatico, ovvero uno spazio che diventa sacro, importante, nel quale poter fare, essere ciò che davvero si vuole.
Ma ritorniamo un attimo all'origine del significato “anno sabbatico”, così ci può aiutare a comprenderne la valenza e l'essenza più profonda.
Mi sono fatta aiutare in questo non da internet, bensì da una vecchia Enciclopedia che ho in casa fin da quando ero ragazza e che mio padre comprò a rate, perchè lui, uomo che non aveva potuto studiare, credeva nella cultura e ammirava la mia sete di sapere. Scusate la diversione, ma la ritenevo importante per farvi conoscere un po' di me...
Leggiamo insieme: “Secondo una disposizione contenuta nel Levitico1 (XXV, 2-7), il popolo ebreo doveva lasciare riposare la terra ogni sette anni; come ogni settimo giorno della settimana e ogni settimo mese dell'anno, così il settimo anno era consacrato al Signore. In tale anno, i frutti spontanei della terra dovano lasciarsi ai poveri, si rimettevano i debiti tra Israeliti e si compivano speciali atti di culto. L'anno sabbatico cominciava appunto col settimo mese (Tisri, 15 settembre-15 ottobre), con la festa dei Tabernacoli, in cui si leggeva, al cospetto del popolo, tutta la Legge; l'osservanza poi delle prescrizioni era severissima, tanto che, essendosi più tardi infranta, per un periodo abbastanza lungo, prima della cattività di Babilonia, i settanta anni di esilio e la desolazione del paese furono espressamente notati nella Sacra Scrittura (II Paralipom., XXXVI, 21), come castigo destinato a riscattare le violazioni dell'anno sabbatico. L'immagine dell'anno sabbatico venne adottata pubblicamente da Gesù per designare metaforicamente la sua opera (Luca, 4, 19)” (Encliclopedia Utet, Torino).
In tale Vangelo viene scritto: “Lo spirito del Signore è sopra di me, perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri; mi ha mandato per annunciare la liberazione ai prigionieri e il ricupero della vista ai ciechi; per rimettere in libertà gli oppressi, per proclamare l'anno accettevole del Signore”.
Avreste mai immaginato che dietro a questa espressione potesse esserci un'accezione religiosa così importante? In realtà in tante cose che compiamo e che viviamo essa è presente.
E così scopriamo che l'anno sabbatico è un momento “dovuto”, necessario ad un processo di regenerazione, di pulizia, di perdono, di guarigione, di meditazione.
Ed era previsto ogni sette anni, come ogni sette giorni (per noi la domenica, per gli ebrei è il sabato) è previsto un giorno di riposo, di svago, di incontro con i nostri cari, ma anche di pratica di un culto, di una preghiera che aiuti alla riconessione delle nostre parti, che ci aiuti a ricordarci chi siamo nella nostra espressione più profonda, e a quanto siamo tutti collegati ad una Sorgente di Energia che ci mantiene forti e vitali, se rispettata nelle sue leggi.
Occorre trovare il tempo sacro nel quale fare spazio a tutto questo e occorre farlo non rimandando ad un tempo propizio, ma farne una pratica costante, che può essere quotidiana o settimanale, ma è un impegno che si prende con noi stessi e che ci permette di essere più autentici anche con gli altri.
Farlo per noi permetterà di riconoscerlo anche agli altri.
Ecco perchè si parla di legittimazione, ovvero di rendere legittimo il bisogno di coltivare una passione, un interesse che posso poi ritrovare nel momento in cui il mio Io sociale può subire un cambiamento, favorendo così quella che può essere definita la disidentificazione egoica con ciò che vivo e che non mi permette di conoscermi al di là dell'azione che compio. Molto più semplicemente potrebbe essere espressa con: “Io lavoro come psicologa, ma non sono una psicologa sempre!”
E voi, quali sono le vostri passioni, quale il vostro momento sacro, quali i vostri interessi che magari avete abbandonato tempo fa in nome dei doveri “più urgenti”.
Dott.ssa Anna Scelzo
Psicologa Psicoterapeuta a Chiavari
Psicologa Psicoterapeuta a Chiavari
Iscrizione Albo n. 1602 dal 7/11/2006
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